Melville e la pizza

herman melville pizza

E va bene, lo ammettiamo, questo è un po’ un titolo acchiappa click. Perchè chi potrebbe mai resistere alla pizza? Se poi ci mettiamo insieme Melville allora il mix diventa esplosivo.

E’ vero, non abbiamo prove che Melville si nutrì mai di pizza. Ma è certo che il 18 Febbraio 1857, Herman sbarca a Napoli dal vaporetto Florio (quei Florio?) dopo un viaggio di 38 ore partito da Messina. Ci rimane 6 giorni, visitando la città, i musei borbonici, Posillipo, le Catacombe di San Gennaro. E’ affascinato dai suoi contrasti. Via Toledo gli ricorda quasi Broadway tra colori sgargianti e santini e Vergini in un bizzarro miscuglio di sacro e profano.

La tappa a Napoli è parte di un Grand Tour che lo ha portato fino alla Terra Santa e che gli fa visitare le più importanti città d’Italia. Ognuna di esse è descritta con sintetiche e precise note nel suo diario di viaggio. Piccoli elenchi di dati e impressioni che gli serviranno più tardi per parlare del suo viaggio in conferenze e poesie. Ma cosa porta Melville fino a Napoli?

Sono passati sei anni dalla pubblicazione di Moby Dick e Melville ancora non si è ripreso dalla lotta forsennata con la balena bianca. Come abbiamo detto in post precedenti, Moby Dick non è un successo, anzi, economicamente è una totale disfatta. Melville è tormentato dall’idea che la gente si ricorderà di lui solo come dell’uomo che ha vissuto tra i cannibali di Taipii, mentre a lui sembra di aver toccato ben altre profondità dello spirito.

Con Moby Dick Melville ha scavato dentro se stesso, ha indagato l’animo umano e la sua essenza con una foga che lo lasciano stremato. Ha perso vista e salute scrivendo il romanzo per lunghi mesi in un piccolo stanzino freddo e mal illuminato nella sua fattoria di Arrowhead e quello che gli è rimasto in mano è solo una grande desolazione.

Si è smarrito, ha esplorato le cavernosità del suo animo e quello che vi ha trovato lo ha lasciato sgomento. Eppure ha capito che il suo vero lavoro è lì. Nella lenta e meticolosa indagine dell’animo umano. Nel confronto tra i liberi selvaggi incontrati nelle isole Pacifiche e l’uomo colto e ben vestito che nella sua rettitudine morale distrugge tutto quello che tocca.

Ma Melville ha una fattoria e  una famiglia a cui badare. Sempre più figli, sempre più debiti. E tante persone sensate che aspettano solo che lui ritorni al lato pratico delle cose. Che riprenda a scrivere quei romanzi brillanti e avventurosi che gli avevano portato fama e denaro, ma che lui sente ormai troppo lontani.

Forse parla di se stesso quando nel suo diario sulla Grotta della Sibilla Cumana annota “L’uomo cercava le tenebre piuttosto che la luce”.

Si è spinto troppo avanti e il mondo fatica a tenergli dietro. Anzi, vuole che lui si fermi e torni indietro. Scrive la tragedia di Pierre dopo Moby Dick, ritenuto da tanti un tragico pasticcio, che mette a nudo il suo travaglio spirituale. Molti contemporanei, leggendolo, penseranno che sia impazzito. Non è così ma il dubbio che sia stato molto vicino a perdersi completamente è reale.

Il viaggio in Europa e Terra Santa glielo paga il fratello. Nella speranza che un cambio di aria e di scenari possa portargli giovamento, che gli faccia finalmente mettere la testa a posto.

Tornato a casa una qualche tranquillità cala sullo scrittore. La sua salute non declina più. anzi, si stabilizza e anche i suoi tumulti interiori trovano un certo equilibrio. Melville ha ormai lo sguardo di chi ha visto e perso molto, ma anche di un uomo che ha raggiunto una sorta di pacifica rassegnazione.

Scriverà ancora grandi racconti e più avanti si ritirerà nella poesia, ma non tenterà più immense imprese.

Da secoli di distanza, con l’illustrazione di Betta noi gli offriamo una fetta di pizza consolatoria.

PS: su Rayplay potete trovare un episodio di Travelogue destinazione Italia dedicato a Melville e alla sua permanenza a Napoli. E’ più una scusa per parlare di Napoli e dintorni visto lo scarso materiale lasciato nel diario, ma è piacevole.